| Vaalin |
| | «Sono arrivati in città.» L'orologio batte il cambio di ora, come a donare importanza all'affermazione. Il rumore causato si sente distintamente nella grande stanza ed è solo al ticchettio successivo che una seconda voce risponde alla prima. «Quando?» «Pochi minuti fa, non hanno avuto cura di non farsi notare.» «Perché non ne hanno bisogno.» Pausa. Un altro secondo che passa. La mano dell'uomo dietro la scrivania si contrae preda di qualche spasmo. Il respiro della donna invece è regolare, ma stanco, profondo, un ritratto perfetto di monotonia e depressione. Le sue ciglia oscillano in aria una e più volte, ogni istante che passa è un battito di palpebre esauste. Anche il braccio che tiene la cartellina si rilassa e scivola un po' giù, un foglio tenuto male dalla molla fa capolino da un angolo, in una lenta discesa. Divisa in ordine, ma addosso da cinque giorni, pessima cera e scatoletta delle medicine vuota. Nella sua testa si alternano immagini presenti e passate, realtà e fantasia. In tutte queste lei è accanto a lui, a Ryou, sin da quando era ancora una ragazza. Torna vivo nella memoria quel giorno, il primo di Accademia, la classe e poi il campo di addestramento, il suo sorriso, quell'aura di timore e rispetto che suscitava in lei. Non ci sono compagni di corso, nemmeno uno, solo loro due — è sempre stata sola, non ha mai fatto parte di una squadra. Ha nascosto la solitudine dietro una condotta esemplare, lavori impeccabili e risultati eccellenti, si è sempre distinta, acquistando giorno dopo giorno il rispetto che le era dovuto. Ma più avanzava lungo la sua carriera, più avanti andava in quel corridoio professionale, più i suoi passi echeggiavano solitari, più il suo sguardo si faceva duro, la cartellina le si stringeva al cuore come a volerlo consolare della sua inguaribile malinconia. La sera tornava a casa e si guardava allo specchio, per decine di lunghissimi minuti, poi piangeva, lavandosi i denti, ed alla fine sciacquava via dal lavandino lacrime e dentifricio, sollevava di nuovo il volto, lo sguardo fisso sui suoi occhi arrossati dal pianto e si sorrideva, si faceva forza, si diceva che all'indomani sarebbe andata meglio. A lavoro però i colleghi erano inclementi, la chiamavano "la stakanovista", "la macchina", la trattavano freddamente e la evitavano, a meno che non avessero qualche pratica noiosa da sbolognarle, sfruttando il suo disperato bisogno di un contatto, di qualsiasi tipo, di sentirsi necessaria a qualcuno. Svolgeva così il lavoro suo e degli altri, faceva straordinari su straordinari, anche non retribuiti, sino a tarda notte, quando si raggomitolava sulla sedia del suo ufficio e si abbracciava forte le ginocchia strette al petto. E nonostante tutto ciò, nessuno le offriva mai un caffè, né scambiava quattro chiacchere con lei, scopriva sempre dopo le cene o le bevute organizzate fra colleghi e tutti le dicevano allora di essersi scordati di invitarla, pensando che non le sarebbe interessato, che avrebbe avuto da fare — sicuramente, con tutte quelle faccende da sbrigare. In tutto questo lui invece era lì, c'era sempre stato, pronto a lodarla al rientro da una missione o a proporla per quelle più delicate. Lentamente allora aveva smesso di cercare l'approvazione degli altri o la loro compagnia, in fondo aveva già lui che l'apprezzava, che le diceva che faceva un ottimo lavoro, di continuare così, andando sempre più in alto. Lui era la sua motivazione, le parole amiche di cui aveva bisogno per andare avanti, per non sentirsi vulnerabile, per non sentirsi sola. Quando poteva, faceva sempre rapporto a lui, organizzava i suoi turni per essere a sua disposizione o saltava la pausa pranzo per fare qualche ricerca negli archivi per suo conto. Ad un certo punto, senza neanche accorgersene, aveva finito per esserne la segretaria ed il braccio destro, pur continuando la sua brillante carriera. Eppure, ciò nonostante, non era mai riuscita a dirglielo quanto bisogno avesse di lui, quanto fosse importante per lei, di come avrebbe fatto qualunque cosa, persino morire, se solo le l'avesse chiesto. Un amore non corrisposto, il suo, una gelosia crescente quella che per diverso tempo aveva nutrito nei confronti "della smorfiosa", come la chiamava lei, di quell'arrogante di una Takeda che era comparsa dal nulla portandole via il suo Ryou. Alla fine dei giochi, però, dentro quella stanza, accanto a lui, adesso c'era lei, soltanto lei, e nessun altro. E poco importa che per lui sia solo uno strumento, un oggetto, un'arma, un pupazzo, l'importante è che sia sua, completamente, irrimediabilmente, sua.
~ · ~ «Nervosa?» Tono paterno, sorriso indulgente di chi la sa lunga. «Perché dovrei?» «È la prima volta che metti piede a Konoha da quando-» «Il puzzo della Foglia resta lo stesso.» Glissa la donna, con una punta acidula nella sua voce fredda e sbrigativa, decisa. «Non la pensavi così un tempo...» Lo sguardo di lei si abbatte feroce sul suo volto per un istante, poi torna a scrutare fuori dal finestrino della carrozza, la guancia appoggiata stancamente sulla mano destra. «Non fare finta di conoscermi, vecchio, e smettila di comportarti come fossi mio padre: mi irrita.» «Credevo ci fosse un patto di fiducia, fra noi.» «Fiducia, non amicizia, tanto meno familiarità.»
Qualcosa attira l'attenzione della donna, che si sporge in avanti a bussare al cocchiere per fargli intendere che deve fermarsi. L'anziano osserva il mondo fuori dal finestrino ed intravede due figure anonime — «Sono loro?» «Non abbiamo tempo per gli scherzi, quindi direi di sì.» Segue uno stanco sospiro del pover'uomo, sopportarla quando ha la Luna storta non è impresa facile ed ultimamente pare averla più spesso del solito. Da un certo punto di vista la capisce e la rispetta per la scelta che ha fatto, però potrebbe anche cercare di non far pesare la cosa ad ogni singolo istante. Non è l'unica ad aver sacrificato qualcosa, affatto.
La carrozza si arresta, lo sportello si apre ed il suo terzo, silenzioso occupante, un ragazzo smilzo e dallo sguardo vispo, ne esce fuori con passo certo, in direzione dei due passanti additati prima. «Scusate, sapete dove posso trovare un medico? Mio padre...» Con il pollice destro indica il veicolo dietro di lui, con la sua porticina ancora spalancata; l'espressione è preoccupata, ma non disperata, forse si tratta di qualcuno con un lieve malore. «Non è niente di grave, però... avrei bisogno di qualcuno che ne sapesse qualcosa di pronto soccorso!»
Nel frattempo, a bordo, nell'oscurità dell'abitacolo qualcuno si sta spazientendo e sussurra: «Quanto ci mettono?»
Eccoci qua alla vostra prima missioncina personalizzata. Nel titolo la chiamo una Missione Libera e con ciò intendo che non è niente di formale tanto Off quanto On Game. Siete liberi di comportarvi come meglio pensate che farebbero i vostri personaggi, non c'è un vero modo di "vincere" o "fallire" in questa missione, si tratta di giocare e vedere che ne esca fuori. Naturalmente, migliori le vostre scelte migliori i risultati e le ricompense che otterrete, tanto sul piano narrativo quanto su quello formale di ryo e punti esperienza.
L'ambientazione è Konoha, dove dovreste essere al termine della vostra ruolata al Bar. Per rendere la cosa un po' più spedita ho assunto vi siate mossi e siate ora vicino ad una strada, sulla quale potete vedere una carrozza che si ferma. Un uomo vi si fa incontro, è giovane e di bell'aspetto, un po' preoccupato in volto. Vi chiede dove possa trovare un medico, pare che qualcuno abbia avuto un malore e gli servirebbe un pronto soccorso. Guarda caso Maryam ha in scheda delle abilità mediche: chissà cosa spero facciate? (Siete comunque liberi di comportarvi altrimenti, però poi vi tengo il muso!) Scherzi a parte, usate questo post per riempire il buco tra la ruolata precedente e questa e per decidere se dare o meno una mano. In caso di risposta affermativa, potete ruolare che una volta nei pressi del veicolo venite invitati a salire a bordo. Nell'abitacolo ci sono un uomo anziano completamente calvo ed una donna giovane e di bell'aspetto dai capelli rossi. A questo punto dovreste interrompere la narrazione, dopodiché starebbe di nuovo a me. Come detto, potete anche decidere altrimenti e gestire diversamente la situazione, magari indicando una vera e propria struttura ospedaliera. Ma la deontologia medica dovrebbe impedirvi di abbandonare un povero malato!
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